Onorio, Galla, Teodorico
Tre racconti fantastici sul filo delle leggende imperiali
In quarta di copertina leggiamo:
Galla Placidia conosceva un linguaggio segreto che le permetteva di comunicare attraverso le colombe? Teodorico era venuto in possesso di una misteriosa pietra di potere seppellita a Ravenna ai tempi di Onorio e l’aveva opportunamente occultata sotto al suo mausoleo? Erano entrambi iniziati alla Lingua degli Uccelli? Sullo sfondo di una Ravenna Capitale spesso sofferente per le ingerenze della Corte di Costantinopoli, i personaggi principali dei tre capitoli si muovono secondo dinamiche del tutto personali. Onorio (anche lui amante dei pennuti) è immerso nelle sue visioni e ha la lentezza tipica di un sognatore; Galla Placidia, al contrario, è sempre colta in azione, sotto vesti e ruoli diversi; infine il ritratto di Teodorico è ammantato da accenti tragici, messi in risalto dal monologo conclusivo dove non mancano i dubbi e, forse, i rimorsi, ma anche i rimpianti di un uomo della sua statura, consapevole della fine dei suoi giorni.
Il libro raccoglie numerose leggende imperiali seguendo le tracce della narrazione storica degli eventi. Ma, se il periodo storico copre più di 120 anni, la lettura sembra ricondurre tale tempo ad un solo giorno ideale, un giorno emblematico della Storia che da questa città è passata e qui ha lasciato segni indelebili e unici. Questo giorno è indicato dall’alba in valle con cui si apre il primo racconto e dalla buona notte che conclude il terzo al tramonto.
(La scena che segue è una delle ultime di Teodorico. Il Re ha già fatto uccidere Boezio e Simmaco e lasciato morire Papa Giovanni in carcere.)
Teodorico, in preda al furore omicida e completamente in balia delle sue ombre – forse rimorsi – prese a vagare da solo a cavallo per la città. Cavalcò fino alla pineta, quindi si recò al cimitero degli Ostrogoti, la sua gente, e si inginocchiò:
“Pietre, pietre!” gridò “ecco ciò che siamo” Sassi che non riescono mai a prendere il volo! Falchi che non ritornano mai con la buona nuova, aquile che dalle altre vette del cielo non scorgono il lacerante affannarsi di quaggiù, il misero dibattersi e il vano prodigarsi di umani la cui bellezza sfugge e appassisce lesta: che fate dunque voi lassù che non soccorrete che invoca la nostra messaggeria? Dove siete, creature del cielo? Dov’è la vera luce che illumina i vostri occhi, che guida le nostri menti impazzite? Dovrò dunque attendere il fulmine che fu amaramente scagliato contro di me dalle parole di Odoacre? O correre per sfuggire alle ombre che già sento risvegliarsi per prendere a torturare me, il mio Regno, la mia gente? Gente che muore, che giace sotto questa terra…”
Gridava e alzava le braccia al cielo, quindi si piegava a toccare la terra, a posarvi la testa che sentiva infuocata, come un vulcano che sta per eruttare disastroso tutt’intorno a sé. Cercava ristoro sul freddo terreno e batteva il cranio contro quelle zolle e i sassi che affioravano. Raccolse un po’ di terra con entrambe le mani e si spalmò il volto rotondo e ricoperto di una irta peluria biondiccia, arrivando fino alla gola. La circondò stringendo forte le dita e così facendo il rossore che divampava al di sotto della barba si trasformò in lugubre viola. Continuò a serrare la presa sempre più, forse per calmare il battito di quella vena che pulsava come se dovesse scoppiare da un momento all’altro. O forse, per sentire l’effetto che facesse. Rivide le teste tagliate di Simmaco e Boezio, quegli occhi sbarrati per sempre come onici galleggianti in un mare perlaceo di ghiaccio e quelle lingue che non potevano più proferire parola.
“Traditori!” gridò alzandosi in piedi mentre fissava il pugno minaccioso che sollevava dinnanzi a sé e serrava la mascella, quasi a stritolare i suoi stessi denti dietro le labbra ridotte a un filo increspato. Le ampie narici si spalancarono rigide lasciando passare un respiro forte come il vento.
“Ma fu vero tradimento?” si domandò subito dopo, lasciando cadere dalla mano la terra che gli scivolava fra le grosse dita.
“Dov’è l’airone?” chiese improvvisamente rivolgendosi in direzione delle paludi e del mare.